Una ragazza nigeriana, clandestina e analfabeta mi ha dato appuntamento alla stazione.
In una mano tiene un sacco dell'immondizia con dentro le sue poche cose e nell'altra il figlio di 12 giorni.
Sta scappando da una suora.
“Please, I need
your help...”.
Quante volte avrò sentito questa frase? La voce è
sempre la stessa, supplichevole e l'inglese traballante.
Sono anni che mi occupo di accoglienza per donne
migranti, spesso vittime della tratta, ragazze giovani e vulnerabili che
trafficanti senza scrupoli hanno messo sulla strada.
Capita così che devo mollare tutto, salire in
macchina e dirigermi verso la stazione, quasi sempre il luogo prescelto per
l'incontro con la sconosciuta di turno.
Anni fa ricevetti una chiamata alle 4 del mattino, la
ragazza diceva di aver paura, qualcuno in strada le aveva dato il mio numero di
telefono, voleva scappare. Fu una levataccia, poi di corsa verso la stazione, i
bar ancora chiusi, neanche il tempo di un caffè. E me la ritrovo lì davanti,
truccata come a carnevale, con un paio di pantaloncini fucsia che a fatica
contengono un culone oversize. Un breve scambio di saluti, domande e risposte
di rito.
“Vabbè... sali in macchina, ti porto in un posto
sicuro, poi con calma vedremo cosa fare”.
Nel piazzale uno spazzino solitario ci osservava con
aria ambigua, forse invidia, probabilmente commiserazione.
Sono passati 8 anni e quella ragazza è ancora al
Centro di Accoglienza, è diventata un'operatrice sociale, non chiede più aiuto,
è lei che lo offre alle ragazze appena arrivate.
Altro giro, altra corsa.
Mi ritrovo davanti una intrigante nigeriana vestita a
festa con quattro enormi valigie al seguito.
“Adesso sono pronta, ho deciso di scappare, portami
via”.
Nessuno spazio per una replica, il tono è perentorio:
“Vengo con te”.
Una frase che in una situazione differente mi avrebbe
stuzzicato, e non poco.
E poi ancora...
“Vienimi a prendere, non ce la faccio più...”.
“OK, dimmi dove sei?”.
“A Verona”.
“Cazzo, è un po' lontano. Ma non c'è nessuno lì a cui
rivolgerti? Non puoi chiamare la polizia?”.
“No, una mia amica mi ha detto che posso fidarmi solo
di te, per favore...”.
“Non adesso, adesso non posso, domani sera, va
bene?”.
“Ti aspetto, per favore...”.
Quattro ore di viaggio, patatine e spritz in un bar
da camionisti, scambio confuso di sms per capire come riconoscerci, sosta
veloce nella piazzetta convenuta.
“Sei tu Paula? OK, sali in macchina, dai andiamo. Fai
attenzione che non ci segua nessuno. Ma parli italiano? Mi capisci?”.
Due occhioni lucidi sono l'unica risposta
Altre quattro ore in notturna. Pensieri tanti e
reciproche incertezze silenziose ad incrociarsi.
Ma questa volta è diverso.
La fisso negli occhi, sono assenti, non c'è paura ma
rassegnazione.
Si porta appresso un unico bagaglio, un sacco
dell'immondizia gonfio di indumenti. E basta.
La voce è flebile, le parole poche: “Please, I need
your help...”.
E ancora, come un mantra: “Please, I need your
help...” .
Avrà si e no 18 anni.
Continuo a osservarla con un senso di imbarazzo,
questa volta mi sento impreparato.
Avvolto in uno scampolo di stoffa la ragazza tiene in
braccio una minuscola creatura. Di appena 12 giorni.
“Andiamo” è l'unica cosa che riesco a dire.
“Il mio nome è Pamela. Sono nata nel 1994 a Benin City, Edo State, Nigeria.
Ho finito la scuola primaria nel 2006. Nel 2009 ho
finito la scuola secondaria.
Nel 2012 sono andata a lavorare in una sartoria per
sei mesi.
In sartoria qualche volta veniva una donna a portare
ad aggiustare dei vestiti. Un giorno al lavoro questa donna mi ha parlato della
possibilità di andare in Italia insieme ad altre ragazze che sarebbero partite
a breve.
Questa donna si chiama Mama Eno ed è la madre della
mia madam in Italia.
Dopo un giorno Mama Eno mi ha chiamato dicendomi di
preparami e di recarmi a Lagos.
Sono andata a Lagos dove mi aspettava un uomo, il
quale mi ha accompagnato in una casa dove c'erano altre ragazze.
Dopo 4 giorni l'uomo mi ha portato a fare tutti i
documenti utili per partire.
Sul passaporto c'era scritto un altro nome, non il
mio. Mi ricordo solo che il cognome indicato era Kuti, un nome comune tra
l'etnia Yoruba, perché l'intenzione era farmi entrare in Italia come figlia di
un uomo di etnia Yoruba.
Dopo aver fatto i documenti necessari sono ritornata
a Benin City. Mama Eno mi ha detto che
mi avrebbe chiamata quando sarebbe arrivato il momento di partire.
Il 25/12/2012 Mama Eno mi ha chiamato e mi ha fatto
fare un giuramento voodoo a casa sua alla presenza di un native doctor. Inoltre
mi ha detto che i documenti erano pronti.
Ho giurato di pagare 60.000 euro.
Avrei dovuto dare tutti i soldi a sua figlia (la
madam a Torino) e che se non restituivo tutta la somma sarei morta in Italia.
Finito di pagare il debito sarei potuta ritornare in Nigeria a riprendermi le
mutandine che Mama Eno mi aveva preso per far il rito voodoo e che avrebbe
utilizzato per farmi morire nel caso non avessi pagato il debito a sua figlia.
Dopo il rito voodoo Mama Eno mi ha dato anche una
benedizione, per il viaggio e per la vita in Italia, in modo che andasse tutto
bene e riuscissi a pagare tutto il debito.
Il 25/12/2012 da Benin City sono andata a Lagos.
Sono rimasta a Lagos a casa di un uomo di nome Monday
con altre tre ragazze.
Monday mi ha comprato il biglietto per venire in
Italia.
Monday mi ha accompagnato insieme a un'altra ragazza,
Faith, all'aeroporto. Faith mi ha accompagnata durante il viaggio, perché non
era la prima volta che veniva in Italia. Faith parlava in aeroporto anche per
me e diceva che ero sua figliastra e che stavamo andando in Italia a trovare i
genitori.
In aeroporto c'era un uomo che ci aspettava e si è
fatto passare per mio padre e per marito di Faith. Ha inscenato che
accompagnava la moglie e la figlia al volo e poi se ne è andato.
Prima di partire Monday ci ha consegnato un foglio
dicendoci che era da dare al taxista una volta arrivate a destinazione.
L'aereo è atterrato in un paese dove si parla la
lingua francese, non so il nome della città.
Atterrate abbiamo preso un taxi. Abbiamo consegnato
al taxista il foglio datoci da Monday e ci ha portato in un albergo.
Il giorno dopo un ragazzo (non so come si chiama) è
venuto a prenderci in albergo. Con lui abbiamo preso la metropolitana per
andare alla stazione centrale dei treni.
In stazione il ragazzo ci ha comprato i biglietti.
Per me ha comprato il biglietto per andare a Torino. Per Faith non lo so. Ho
salutato Faith e sono salita sul treno.
Mi hanno dato un telefono con una sim card italiana,
dicendomi che la madam a Torino mi avrebbe chiamato. Ma la madam non mi ha
chiamato.
Quando sono arrivata a Torino si è avvicinata una
donna chiedendomi se ero Pamela. Io ho risposto di si. Così la donna mi ha
accompagnato a casa sua.
La donna mi ha detto subito di darle il telefono che
mi aveva lasciato il ragazzo e il passaporto.
Mi ha chiesto quale crema per la pelle uso perché
doveva andare al mercato a fare shopping.
Mi ha dato da mangiare.
Io volevo chiamare la mia famiglia per avvisare che
ero arrivata. Ho chiesto alla donna se potevo ma lei mi ha detto che non potevo
parlare con nessuno e che avrebbe avvistato lei i miei genitori.
Sono arrivata a Torino il 31/12/2012, non sono andata
da nessuna parte perché era festa.
Ho iniziato al lavorare dopo due, tre giorni, era un
sabato.
Il primo giorno la madam mi ha mandato a lavorare
insieme ad un'altra ragazza, Blessing.
La madam mi ha detto quanto dovevo prendere per il
lavoro in strada, 20 euro a cliente.
Mi ha detto che non dovevo andare a casa dei clienti
e che non dovevo stare troppo tempo con i clienti, mi ha dato i preservativi
spiegandomi come usarli.
Blessing mi ha fatto vedere il luogo dove dovevo
lavorare.
Blessing non mi ha detto che dovevo iniziare quello
stesso giorno ma mi ha solo fatto vedere il posto, dopodiché mi ha riportato a
casa.
La madam quando è rientrata a casa mi ha chiesto come
mai non ero a lavorare e che quindi sarei dovuta andare a lavorare il giorno
dopo, domenica.
Blessing mi ha accompagnato sul luogo di lavoro e mi
ha lasciato da sola, perché era domenica e di solito di domenica non si lavora.
Quel giorno volevo scappare. Cercavo di spiegare la mia situazione ai clienti
in inglese ma nessuno parlava inglese. Alla fine sono riuscita a trovare un
signore che parlava inglese e gli ho spiegato la mia situazione e gli ho
chiesto il numero della polizia. Lui ha chiamato un'altra ragazza che parlava
inglese e anche alla ragazza ho spiegato la mia situazione.
Quando sono arrivati i carabinieri mi hanno chiesto
cosa avessi nella borsa. Nella borsa avevo solo preservativi e fazzoletti.
Per andare sul luogo di lavoro ho preso l'autobus ma
non mi ricordo il nome della strada (fuori Torino) e non ho tenuto il biglietto
dell'autobus.
I carabinieri mi hanno portato in caserma e mi hanno
chiesto come mi chiamavo. Io ho detto di chiamarmi Joy perché la madam mi aveva
detto di dare quel nome se mi avessero preso i poliziotti o i carabinieri...
I carabinieri hanno chiamato una persona italiana che
palava un po' l'inglese. Mi hanno preso le impronte digitali. Dopo qualche
giorno mi hanno chiesto di raccontare la mia storia e hanno chiamato una
mediatrice culturale nigeriana.
Alla mediatrice ho detto che non ero venuta in Italia
con l'aereo ma che ero sbarcata a Lampedusa. Anche queste indicazioni me la
aveva date la mia madam.
Ma non conoscevo meglio i dettagli, così non sapevo
raccontare bene la storia ai carabinieri, perché non era la mia vera storia.
I carabinieri mi hanno accompagnato presso
un'associazione di Torino.
Ho parlato con una mediatrice culturale che lavora
per l'associazione. Le ho raccontato la storia di Lampedusa che mi aveva
consigliato di dire la madam. La mediatrice si è accorta che non era vero ciò
che le stavo raccontando, così ho iniziato a raccontare la mia vera storia. Ho
raccontato del viaggio, della mia famiglia in Nigeria...
L'associazione di Torino mi ha ospitato presso una
sua struttura. Mi hanno accompagnato a fare le visite mediche e così io ho
detto loro di essere incinta. Io non potevo stare nelle loro strutture perché
ero incinta, così mi hanno cercato un posto da un altra parte.
Ho lasciato l'associazione di Torino l' 8/05/2013 e
sono andata in un altra casa di accoglienza di suore in Lombardia.
In Lombardia mi hanno seguito per tutto il periodo
della gravidanza.
Un giorno la suora responsabile della casa di
accoglienza mi ha chiamato per parlarmi di un progetto che da la possibilità di
ritornare in Nigeria.
Io ho chiesto se era obbligatorio ritornare in
Nigeria. Loro mi hanno spiegato che non era obbligatorio se avevo qualcuno che
mi aiutava qua in Italia ma se in Italia non avevo nessuno dovevo ritornare in
Nigeria.
Successivamente la Questura di Torino ha
mandato la lettera di rifiuto della domanda dl permesso di soggiorno. Dopo aver
ricevuto la comunicazione le suore della casa di accoglienza mi hanno detto che
non potevo rimanere in Italia e che dovevo ritornare in Nigeria.
Dopo la nascita del bambino mi hanno nuovamente
parlato del progetto di rimpatrio in Nigeria. Io ho detto che non volevo
tornare in Nigeria, così loro mi hanno detto che dovevo iniziare ad aggiustarmi
da sola.
Dopo questo colloquio ho avuto l'impressione che non
volessero che io stessi presso le loro strutture.
Una ragazza che abitava nella stessa comunità mi
aveva regalato dei vestiti per il bambino. Le suore credevano che io avessi
rubato i vestiti.
Io ho chiesto alla ragazza che mi aveva regalato i
vestiti perché non avesse detto la verità e lei mi ha solo chiesto scusa ma non
è andata a dire alla suora che in realtà non avevo rubato i vestiti ma che era
stata lei a regalarmeli.
Le suore hanno anche detto che io avevo rubato dei
gioielli ma non era vero.
Dopo questi episodi continuavano a dirmi di entrare
nel progetto di rimpatrio. Se non accettavo mi hanno detto che mi avrebbero
tolto mio figlio. Così io sono scappata e ho chiamato una mia amica, Ester (che
era già stata ospite nel Centro di Accoglienza di Asti). La mia amica mi ha
dato i riferimenti del Centro di Accoglienza di Asti e mi ha detto dove si
trovava.
Ho incontrato gli operatori del Centro di Accoglienza
di Asti per la prima volta il 22/08/2013 ad Asti”.
Nel pomeriggio telefono alla suora responsabile della
casa si accoglienza in Lombardia per avere maggior informazioni.
“La ragazza è una testona, ha rubato una catenina
d'oro ad un'altra ragazza, ma ha negato sempre tutto. E poi le abbiamo proposto
di partecipare ad un progetto di rimpatrio assistito gestito direttamente da
delle suore in Nigeria, ma la ragazza ha sempre rifiutato. E poi la Questura le ha rigettato
la domanda per il permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale.
Adesso è clandestina e se ne deve andare, noi non teniamo i clandestini”.
Quaranta minuti di puro delirio, la suora si
infervora e salmodia la sua inattaccabile tesi. La ragazza deve tornare in
Nigeria e basta.
Faccio fatica a seguirla, mi infastidisce quel suo tono
predicatorio e saccente.
E poi c'è un cosa che mi spinge verso un'incazzatura
inumana: del bambino nemmeno una parola.
“OK, però almeno potevate accompagnarla a chiedere il
permesso di soggiorno per cure mediche, per maternità”.
“Ma lei lo sa che quel permesso dura solo sei mesi e
non è rinnovabile? E quando scade ritorna clandestina e non serve a niente. In
questa situazione la ragazza deve ritornare in Nigeria. Noi i clandestini non
li teniamo”.
Quel permesso per cure mediche non è vero che non
serve a niente, permette alla madre ed al bambino di accedere alle strutture
sanitarie per i controlli di rito, per garantire la salute al bambino. Poi si
vedrà...
Suore. Carità. Penitenza. Sacrificio. Ordine. Fede.
Suore.
L'importante è garantire il rispetto delle regole.
Una ragazza poco più che adolescente, senza soldi e
documenti, semianalfabeta che si allontana con in mano un bambino di 12 giorni
verso destinazione e futuro ignoto non conta nulla.
L'importante è il rispetto delle regole.
L'importante è garantire che la vita sia sempre
concepita.
Una volta concepita, quella vita non vale più un
cazzo. Può essere abbandonata senza scrupoli al destino di una madre
disgraziata.
Mi chiedo con che criterio vengono accreditate e
autorizzate certe strutture di accoglienza dove le responsabili non si
premurano nemmeno della salute dei neonati.
E mi fermo qui, che mi sale una rabbia che non mi è
usuale.
E bestemmio, bestemmio, bestemmio.
Asti, 30 agosto 2013